una piattaforma liquida su crisi climatica, interazioni antropoceniche e transizione ecologica 
un progetto di MUSE Museo delle Scienze Trento ideato e curato da Stefano Cagol

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Mostra Liquida # 1


Eugenio Ampudia (ES), Nezaket Ekici (TR/DE),
Elena Lavellés (ES), Shahar Marcus (IL),
Hans Op de Beeck (BE), Philip Samartzis (AU)


a cura di Stefano Cagol

9 aprile - 29 maggio, 2022
MUSE Museo delle Scienze
Palazzo delle Albere, Trento

 



La prima mostra di WE ARE THE FLOOD (Noi siamo il diluvio) affronta diverse sfaccettature dell’Antropocene attraverso la ricerca di sei prominenti artisti internazionali, tra i più rappresentativi, che includono Eugenio Ampudia (Spagna), Nezaket Ekici (Turchia/Germania), Elena Lavellés (Spagna), Shahar Marcus (Israele), Hans Op de Beeck (Belgio) e Philip Samartzis (Australia).
Le nove opere esposte – la maggior parte presentate in Italia per la prima volta – si muovono negli ambiti più attuali dell’arte contemporanea attraverso molteplici linguaggi espressivi, spaziando dalla video arte, la documentazione di performance, living installations e azioni, fino alla sound art e la più recente ricerca ecoacustica.
Le suggestioni innescate da lavori che prediligono un approccio evocativo, altamente simbolico e una raffinata ricerca estetica, ci spingono a riflettere portandoci dagli iceberg e il ghiaccio frammentato dell’Antartide al deserto del Negev, dall’acqua al fuoco, da un ipnotico oro nero fino alla proposta di un cambio di paradigma che riporti la vita al centro, secondo un’ipotesi di nuovo “Biocene”.
WE ARE THE FLOOD è una piattaforma liquida su crisi climatica, interazioni antropoceniche e transizione ecologica, un progetto del MUSE con la curatela di Stefano Cagol che coinvolge il pubblico sui temi dell'Antropocene, grazie al linguaggio e all'interpretazione offerta dall'arte contemporanea. 

WE ARE THE FLOOD

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Eugenio Ampudia (Spain),  Concierto para el Bioceno, 2020, HD video, 7:30 min.  Gran Teatre del Liceu, Barcellona (ES). Courtesy l’artista / the artist; Max Estrella Gallery, Madrid (ES)

Opera segnalata da / Artwork selected by Blanca de la Torre

 

L’opera video immortala un concerto nella cornice dello storico Gran Teatre del Liceu di Barcellona con l’esecuzione di un’elegia per quartetto d'archi, "Crisantemi" del compositore italiano Giacomo Puccini, di fronte a un pubblico indubbiamente d’eccezione: una schiera di oltre duemila piante verdi, per l’esattezza 2.292, quant’è la regolare capienza di spettatori. Eugenio Ampudia afferma di aver pensato questo spettacolo per piante come simbolico atto di riformulazione del presente, un cambio di paradigma basato su un compromesso eco-sociale, nell’equilibrio tra pretese della nostra società ed esigenze dell’ambiente. Questa proposta di cambiamento viene dichiarata fin dal titolo dell’opera attraverso il riferimento al concetto di “Biocene”, portato avanti nella recente Bienal de Cuenca dalla curatrice Blanca de la Torre, che sostituisce il termine Antropocene – la definizione dell’epoca più recente come quella del nostro impatto sul pianeta – per fare invece appello all'inizio di una nuova era con la vita (bíos) finalmente posta al centro.

Eugenio Ampudia (Spagna, 1958) è uno dei più affermati artisti spagnoli. Le sue opere d’arte concettuale sulle contraddizioni con cui corriamo verso il futuro sono state esposte a livello internazionale in istituzioni di rilievo come ZKM di Karlsruhe, The Whitechapel Gallery a Londra e Matadero a Madrid. Ha partecipato a svariate biennali che includono quella di Cuenca (2021), l'Avana (2019) e Singapore (2006), e nel 2017 è stato finalista per il padiglione nazionale spagnolo alla Biennale di Venezia.

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Nezaket Ekici (Turchia/Germania), Methexis. 2012, HD video, 3 min. Courtesy l’artista / the artist; Camera: Ben Hertzog; Editing: Daniel Landau; Sound design: Daniel Meier; Assistance: Maya Elran; Tamar Dekel; Naanma Bar-Or; Shahar Marcus; Stills: Maya Elran


Quest’opera video di Nezaket Ekici è il frutto di una performance che mette alla prova il corpo e la resistenza dell’artista secondo una pratica ascrivibile all’ambito delle cosiddette living installations (installazioni viventi). L’opera si apre con una scena marina apparentemente innocua, ma quando l’inquadratura si stringe intuiamo l’ostilità del luogo attraverso i vistosi cristalli di sale che identificano lo specchio d’acqua più salato del mondo, il Mar Morto. Su quest’acqua che esclude quasi tutte le forme di vita, fluttua un corpo, il viso immerso nell’acqua, gli occhi chiusi, il respiro sospeso. Oltre a portare l’attenzione sulle diverse questioni della nostra relazione con l’acqua in tutte le sue forme, come fanno molte opere della stessa artista, questa immersione richiama alla mente paventati scenari futuri di un pianeta Terra che potrebbe divenire per noi irrimediabilmente inospitale.  Il titolo evoca un termine greco, metessi, traducibile come partecipazione e originariamente entrato nel linguaggio filosofico di Platone per esprimere il concetto di relazione della parte con l’essenza, affine all’idea della mostra e del nostro “essere diluvio”.

Nezaket Ekici (Turchia, 1970) è una performance artist di fama internazionale, vive e lavora a Berlino e Stoccarda. Usa il suo corpo come mezzo di espressione e d’indagine, sviluppando la sua pratica principalmente attraverso l’interazione con il pubblico. Alla Hochschule für Bildende Künste di Braunschweig in Germania ha studiato nella classe di Marina Abramović. Ha esposto in musei come PS1 New York (2004), Istanbul Modern (2014), e partecipato a biennali come quella di Venezia (2007), Curitiba (2009) e Bangkok (2020).

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Elena Lavellés (Spagna), Pattern of Dissolution, 2017, HD Vídeo, 30 min. Courtesy l’artista / the artist; Suono / Sound: Javier Lara

Opera segnalata da / Artwork selected by Blanca de la Torre


Quest’opera video della giovane artista spagnola Elena Lavellés prende tre diversi elementi, il petrolio, il carbone e l’oro, quali emblemi della società occidentale contemporanea, tra sviluppo, crisi e conseguenze delle scelte attuate. Nelle immagini, queste diverse sostanze diventano un tutt’uno inscindibile, che l’artista osserva da punti di vista estremamente ravvicinati che amplificano le superfici, i riflessi, i flussi, i sussulti. Si formano ipnotiche costellazioni, movimenti incessanti e inesorabili che diventano metafora dell’onda insistente e vischiosa che possiamo essere. Queste atmosfere sono rese ancora più dense da un suono profondo composto appositamente per quest’opera. Muovendosi nei territori d’intersezione tra geologia, ecologia, indagine sociale e ricerca estetica, Lavellés fa riferimento alle questioni dello sfruttamento delle risorse naturali toccando i concetti di materialità, durata e paesaggio.

Elena Lavellés (Spagna, 1981) è un’artista spagnola tra le maggiormente promettenti, appena insignita del riconoscimento più prestigioso per gli artisti iberici: l’invito alla Reale Accademia di Spagna a Roma. Tra i premi che ha ricevuto c’è Generaciones de La Casa Encendida di Madrid del 2018 e ha fatto parte del Whitney Museum Independent Study Program a New York nel 2017. Ha studiato al California Institute of the Arts – CalArts negli Stati Uniti e anche filosofia e geologia all'Università Complutense di Madrid.

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Shahar Marcus (Israele), Still Burning, 2010, opera video / video work, 2:36 min. Courtesy l’artista / the artist


L’artista israeliano Shahar Marcus inscena il fuoco, una combustione umana, un’immagine che, con la sua crudezza, riconduce all’idea di autodistruzione dell’essere umano e al suo ruolo nella complessa concatenazione di cause ed effetti del fenomeno del riscaldamento globale. Una persona appare seduta a un tavolo piegata sul ripiano, inerme. Improvvisamente l’avvolgono le fiamme, ma rimane immobile, senza agitarsi, senza scrollare le braccia, senza provare a divincolarsi. La parte superiore del corpo è coperta da una materia informe: più strati di un impasto lievitato avvolgono il tronco, gli arti e il capo. L’artista, come in altre sue opere, dichiara di trarre ispirazione dalla sua cultura e di fare riferimento qui al golem, una figura mitica dell’antica tradizione cabalistica ebraica, plasmato dal fango per proteggerci. Il pensiero va alla nostra abitudine di cercare le soluzioni fuori da noi, alla ricerca di qualcosa che esorcizzi il momento che stiamo vivendo. Ma forse neanche un invincibile golem può salvarci.

Shahar Marcus (Israele, 1971) è uno dei più prominenti artisti israeliani della scena contemporanea e lavora principalmente negli ambiti della performance e video art riflettendo sulla narrazione della propria storia, le proprie tradizioni e l’ambiente. Ha partecipato alla Biennale di Mosca (2009) ed esposto alla Tate Modern a Londra, all’Hermitage a San Pietroburgo e nei maggiori musei della sua nazione, come Israel Museum, Tel Aviv Museum of Art, Petach Tikva Museum of Art e Haifa Museum of Art.

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Nezaket Ekici (Turkey/Germany) & Shahar Marcus (Israel), Sand Clock, 2012, still da video / video still, Camera: Ben Hertzog. Editing: Daniel Landau, Courtesy gli artisti / the artists

 


Una performance realizzata a quattro mani da Nezaket Ekici e Shahar Marcus nel deserto israeliano del Negev porta l’attenzione sull’idea di tempo in relazione alla nostra presenza sulla Terra. Entrambi gli artisti appaiono come parte di un gruppo di performer. Sono nel deserto assolato, immobili come antiche sculture che affiorano dalla sabbia. Le loro gambe sono divaricate e le braccia alzate sopra il capo reggono una sfera trasparente dalla quale scende inesorabilmente sui loro corpi un filo di finissimi granelli, come quelli di una clessidra. Sabbia su di loro e tutt’attorno. Quest’allegoria rimanda al tempo che passa, a un tempo condiviso tra noi e l’ambiente e alla necessità di fondersi con esso per comprenderlo. Siamo un tutt’uno, ieri come oggi, e gli artisti vogliono ribadirlo.  Questa performance appartiene al progetto "In Relation", che comprende una serie di opere video tratte performance portate avanti in collaborazione da Nezaket Ekici e Shahar Marcus attraverso un dialogo con il paesaggio e i suoi elementi primari.

Nezaket Ekici (Turchia, 1970) è una performance artist di fama internazionale, vive e lavora a Berlino e Stoccarda. Usa il suo corpo come mezzo di espressione e d’indagine. Ha fatto parte della classe di Marina Abramović.  Shahar Marcus (Israele, 1971) è uno dei più prominenti artisti israeliani della scena contemporanea e lavora principalmente negli ambiti della performance e video art riflettendo sulla narrazione della propria storia, le proprie tradizioni e l’ambiente. 

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Hans Op de Beeck (Belgium), Staging Silence (3),  2019, still da video / video still, Courtesy l’artista / the artist


Nell’immagine tratta da una delle ultime suggestive opere filmiche dell’artista belga Hans Op de Beeck, protagonista è l’atto di “mettere in scena”, che diviene metafora dell’attitudine dell’essere umano di plasmare e soggiogare quanto lo circonda a proprio uso e consumo. Ai lati opposti dell’immagine, due mani sono immortalate in primo piano mentre adagiano sul pelo dell’acqua delle piccole “isole” che completano un più ampio paesaggio immobile. Sono stagnole accartocciate che si riflettono su una superficie liquida scura e ferma come il mare gelido di un innevato arcipelago roccioso illuminato da una luce crepuscolare. Il corto circuito è tra l’immaginario di un luogo irraggiungibile e incontaminato e l’influenza del nostro impatto che l’artista fa simbolicamente arrivare anche qui. In una sospensione tra illusione e prevaricazione, vengono rotte le parvenze, le proporzioni e gli equilibri, e le due mani predominano su tutto incarnando quella nostra innata presunzione di sentirci divinità creatrici che tutto possono.

Hans Op de Beeck (Turnhout, 1969) è uno degli artisti del Belgio più acclamati a livello internazionale. La sua pratica multidisciplinare include installazioni di grande formato e sculture, ma anche opere video, dipinti e disegni, che sviluppano riflessioni sulla nostra società e i suoi dilemmi, dal rapporto con spazio e tempo all’idea di eternità. Ha partecipato alle biennali di Venezia, Shanghai, Singapore, Kochi-Muziris e Aichi Triennale, ed esposto al MoMA PS1 a New York, alla TATE Gallery di Londra, allo ZKM di Karlsruhe e al Reina Sofia a Madrid.

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Philip Samartzis (Australia), Brash Ice . Icebergs, 2010, opere sonore /sound works, registrate in Antartide orientale / recorded in Eastern Antarctica, Ingrid Christensen Coast, Courtesy l’artista/ the artist; Verbier 3-D Foundation (CH)

 


Ci immergono in un paesaggio polare estremo le due opere sonore dell’australiano Philip Samartzis, registrate nell’Antartide orientale oltre dieci anni fa, che riescono a dare voce a questo continente così ostile e remoto attraverso i suoni provenienti dal suo ventre più intimo: i ghiacci che si muovono sulle superfici marine più vicine ai poli. Dagli iceberg ai cristalli più trasparenti. In queste opere, l’acqua nei suoi diversi stati ci rammenta quanto è rilevante negli ecosistemi e, al tempo stesso protagonista di cambiamenti climatici e minacce, che ai poli risultano amplificate. I due pezzi in mostra fanno parte della serie “Floe” (banco di ghiaccio): uno avvicina l’orecchio agli spostamenti delle masse mobili di ghiaccio più voluminose, gli iceberg, mentre l’altro si concentra sul cosiddetto brash ice, gli accumuli di ghiaccio composti da frammenti di non più di un paio di metri di diametro che galleggiano e si scontrano a pel d’acqua. Le opere rientrano nell’ambito dell'ecoacustica, che indaga i suoni naturali e antropogenici e le loro relazioni con l'ambiente.

Philip Samartzis (Australia, 1963) è un sound artist, professore alla RMIT School of Art di Melbourne e direttore artistico del Bogong Centre for Sound Culture. Quale vincitore del premio dell’Australian Antarctic Division Arts (2009 e 2015) ha lavorato nell'Antartide orientale a Macquarie Island e sulla nave da ricerca Aurora Australis. Nel 2021 ha lavorato presso la High Altitude Research Station at Jungfraujoch (HFSJG) invitato dalla Swiss National Science Foundation.




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